Parodontite: scoprila subito e sconfiggila senza bisturi
Spesso, sbagliando, si associa la parodontite a una malattia della vecchiaia. Non è così, questa è una patologia più diffusa di ciò che si pensa e che può colpire anche persone giovani. Se si sottovalutano i suoi sintomi, spesso si rischia di intervenire a malattia già avanzata, dunque con maggiori rischi e più probabilità di dover ricorrere al chirurgo. Se invece si riesce a intervenire prontamente, è possibile non perdere i propri denti e utilizzare terapie moderne e non invasive, che non comprendono il bisturi.
Che cos’è esattamente la parodontite? E’ un’infezione causata da più batteri, microbi e virus. Colpisce i tessuti di supporto dei denti e può portare alla loro definitiva perdita. In Italia, colpisce il 60 per cento delle persone. Citando un vecchio slogan pubblicitario, prevenire è meglio che curare. Dunque, fin dai primi sintomi, si deve fare ricorso al dentista. Quali sono? Il sanguinamento delle gengive deve assolutamente metterci in allarme. Non serve che sia continuo, è sufficiente la sua sporadicità. Altri sintomi che ci devono portare a sospettare sono l’alitosi, la sensibilità dei denti al caldo e al freddo, i denti che cambiano posizione o che si muovono, le gengive che si abbassano ritirandosi. Anche uno solo di questi sintomi deve portarci a chiedere il parere dello specialista.
Le cause della parodontite
Come detto all’inizio, la parodontite non è sinonimo di vecchiaia e decadimento fisico. Pure gli adolescenti possono venire aggrediti da una forma particolarmente violenta di questa patologia, che ha progressione rapida. Può essere un’eredità genetica, purtroppo, a cui non possiamo sfuggire. Ma quello che possiamo fare è curarla con minimi danni. Non solo: attraverso test genetici, oggi si può appunto intervenire con una terapia di prevenzione.
Ci sono malattie sistemiche – osteoporosi, artrite reumatoide e diabete – che hanno correlazione bilaterale con la parodontite e concorrono a scatenarla. Ma alla base può esserci anche uno sbilanciamento dell’assetto masticatorio o la malocclusione dentale. La masticazione dovrebbe essere fatta su 28 denti, escludendo quelli del giudizio. Quando non si procede in questo modo, la malattia è più facile che compaia. Se dunque c’è uno di questi sintomi o se si è a conoscenza di una forma ereditaria della malattia, l’importante è non perdere tempo per salvare la dentatura, evitando dolorose operazione chirurgiche.
Abbiamo detto che la prevenzione può essere fondamentale. Anche in mancanza di sintomi, dunque, due controlli all’anno dal dentista sono necessari. Se lo specialista riscontrerà una sospetta o conclamata parodontite, ci si potrà rivolgere a strutture che possono utilizzare strumenti di diagnosi e terapie di ultima generazione. Ci sono addirittura test di laboratorio che diagnosticano la parodontite analizzando enzimi e batteri, impostando poi programma di prevenzione e di cura, su misura per ogni paziente. Non tutti coloro che sono colpiti, infatti, vedono lo stesso sviluppo e lo stesso impatto della patologia.
Utilizzando il microscopio operatorio, oggi si possono vedere cose che prima era impossibile vedere. Si può individuare ed eliminare il tartaro che si deposita millimetri sotto la gengiva, senza l’uso del bisturi. Con il laser si uccidono i batteri responsabili della malattia, sviluppando un’azione di biostimolazione che sarà utile per la rigenerazione dei tessuti. Così si debella la malattia, senza intervento chirurgico, ma eliminando ‘chirurgicamente’ esclusivamente gli agenti responsabili della parodontite.
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Dente compromesso? Ecco come salvarlo
Quando un dente è compromesso, cosa fare? L’Accademia italiana di endodonzia (Aie) ne ha discusso durante il 27esimo congresso nazionale a Bologna. È emerso che il dente compromesso in arcata non va sostituito con un impianto. Con gli strumenti a disposizione oggi e le nuove tecniche, infatti, migliora la prognosi a lungo termine e il dente può essere salvato. Naturalmente, a giocare un ruolo determinante sono anche la suscettibilità del paziente, l’esperienza dell’operatore, le abitudini viziate e la salute generale.
Durante il congresso Aie, ci si è focalizzati sull’utilizzo di tecniche combinate per recuperare il dente, come l’estrusione ortodontica o chirurgica, la chirurgia parodontale ed endodontica, le procedure protesiche modificate, il reimpianto funzionale del dente. Bisogna insomma valutare una serie di parametri per determinare l’effettiva recuperabilità del dente. Il ripristino della funzione e l’estetica del dente compromesso, con risultati predicibili e affidabili nel tempo.
Togliere il dente non è la prima opzione
Ancora una volta, togliere il dente non è la prima opzione da prendere in considerazione. Oggi è più facile salvare quelli compromessi. Le tavole rotonde e i lavori del congresso sono arrivati a questa conclusione: preservare il più possibile la dentatura naturale, anche di elementi con un certo grado di compromissione. Meglio posticipare soluzioni terapeutiche più invasive, meglio favorire l’approccio conservativo. È emerso anche che, nell’era dell’odontoiatria multidisciplinare, non c’è una terapia che domina sulle altre. Le diverse branche devono lavorare in sinergia ed essere utilizzate con un unico scopo: ridurre l’impatto biologico ed economico del trattamento.
Il percorso di ‘decision making’ è iniziato con il corso precongressuale a cura del professor Thomas von Arx, dell’Università svizzera di Berna, sulla chirurgia endodontica. Sono state valutare le procedure operative e le tecniche rigenerative più appropriate alle diverse situazioni cliniche. Durante le giornate del congresso, si sono alternate diversi relatori, coordinati da Elisabetta Conti. Hanno tutti parlato del tema della riabilitazione in arcata dei denti compromessi, esaminando i processi decisionali interdisciplinari più consoni, spaziando dunque dall’endodonzia alla parodontologia, dalla restaurativa alla protesi e all’implantologia.
Tumore della bocca: l’importanza del dentista
Il dentista è l’alleato sempre più importante contro i tumori della bocca. Perché sempre di più? Perché, come dimostra uno studio pubblicato sul ‘Journal of American Dental Association‘, sono loro a individuare in modo veloce i diversi tipi di cancro orale (che sono in graduale aumento). E, naturalmente, scoprire precocemente un tumore è il primo passo per poi risolverlo e guarire.
Come ricorda l’Associazione Nazionale Dentisti Italiani (Andi), il cancro della bocca trova terreno fertile in particolare in alcune parti della bocca: sulla lingua, sulla mucosa delle guance, sul pavimento della bocca, sull’orofaringe e sulle tonsille. Ogni anno si registrano circa 9 mila casi, il 5 per cento dei tumori dell’uomo e l’1 per cento della donna. L’incidenza è però purtroppo in aumento. Nel nuovo studio, pubblicato sulla rivista specializzata, vengono prese in esame più di 60 mila biopsie richieste dai dentisti ed effettuate, tra il 2005 e il 20015, al Toronto Oral Pathology Service (Tops), che si trova in Canada. Undici anni di osservazioni, quindi. In cui sono stati registrati 828 casi di cancro e 2.679 di lesioni precancerose. Nel 2005 si erano registrati appena 56 casi di cancro orale e 99 di lesioni, nel 2015 siamo passati a 103 e 374 casi rispettivamente. Un sensibile aumento, dunque.
L’Andi organizza l’Oral Cancer Day
Luca Landi, presidente eletto della Società italiana di Parodontologia (SldP), commenta i risultati e spiega perché oggi i dentisti sono figure ancora più determinanti rispetto a qualche tempo fa: “I carcinomi del cavo orale sono generalmente aggressivi ma, se trattati nelle fasi iniziali, presentano tassi di sopravvivenza molto alti. La responsabilità dei dentisti è quindi quella di essere delle sentinelle in grado di fare una diagnosi differenziale iniziale”. Anche per questo motivo, è assolutamente necessario prendere appuntamenti periodici dal dentista per un check up completo della bocca. Anche quando non ci sono sintomi allarmanti.
L’11 maggio, in occasione dell’Oral Cancer Day (oralcancerday.it), organizzato in Italia dalla Fondazione Andi Onlus, si parlerà proprio di salute della bocca con lo slogan ‘Apri la bocca e apri gli occhi’. Per tutta la giornata, si potranno incontrare i dentisti nei punti informativi dislocati in 60 piazze italiane. Non solo: per tutto il mese di maggio si potranno effettuare visite gratuite in più di 3.600 studi che aderiscono all’iniziativa. Un buon modo per iniziare o per proseguire a prendersi cura di se stessi. Partendo dalla bocca e dal sorriso.
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Endodonzia: gli effetti delle temperature sugli strumenti in nichel-titanio
Che effetti ha la temperatura di utilizzo sulla resistenza alla frattura di strumenti endodontici in nichel-titanio (NiTi) tecnologicamente di ultima generazione? Gli strumenti più moderni a base di nichel e titanio vengono sottoposti a diversi trattamenti termici, il che aiuta a migliorare le proprietà meccaniche degli strumenti stessi. Si fanno infatti trattamenti particolarmente complicati sia di riscaldamento sia di raffreddamento per rendere perfetta la fase cristallografica e la trasformazione della lega NiTi da austenite a martensite, avvicinandola il più possibile alla temperatura corporea, creando così una lega a memoria di forma, precurvabile a temperatura ambiente.
Uno studio ha voluto valutare l’influenza di temperature diverse di utilizzo sulla resistenza alla fatica ciclica a flessione degli strumenti citati. Con temperature di 0°, 20°, 35° e 39°, è stato registrato il tempo prima che ciascuno strumento si fratturasse una volta azionato il proprio movimento reciprocante in un canale, con angolo di curvatura 60° e raggio di curvatura 5 millimetri. Il risultato finale è stato simile a quelli finora conosciuti: i Reciproc Blue hanno una flessibilità e una resistenza alla fatica ciclica significativamente più elevate rispetto ai Reciproc-M-Wire.
I risultati dello studio
Differenze sostanziali sono state riscontrate anche tra tutte le temperature analizzate per entrambi i tipi di strumenti testati, tranne che tra 35° e 39°. Insomma, la resistenza alla fatica ciclica degli strumenti in NiTi aumenta proporzionalmente al diminuire della temperatura alla quale vengono sottoposti (0° > 20° > 35° > 39°), con differenze che vanno dal 35 al 421%. La temperatura influenza in maniera importante le proprietà meccaniche dei file NiTi testati.
Altro dato interessante emerso dallo studio: l’aumento delle proprietà meccaniche tra 39° e 0° è stato più lineare per gli strumenti sottoposti al trattamento Blue, mentre è stato maggiormente drastico a 0° per i M-Wire. Le temperature più basse potrebbero avere dunque una minore influenza sugli strumenti che presentano una maggiore flessibilità a temperatura ambiente a causa della percentuale inferiore di struttura metallica che può passare dall’austenite alla martensite. Il tutto è naturalmente votato a capire come migliorare la durata degli strumenti endodontici, come riscaldarli o raffreddarli direttamente durante la pratica clinica a seconda delle necessità.
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L’igienista dentale: il suo ruolo oggi
Come si curano i denti in un paziente con bisogni speciali, dunque da quello epilettico a quello autistico, fino ad arrivare a quello terminale? Il punto è stato fatto dalla Commissione nazionale dei corsi di studi in igiene dentale in un convegno organizzato a Novara dal titolo ‘La cura del cavo orale nei pazienti special needs”.
Il presidente del corso di studi in Igiene dentale dell’Università del Piemonte Orientale ‘Amedeo Avogadro’ di Novara, Pier Luigi Foglio Bonda, ha lanciato l’argomento spiegando come, in odontoiatria, si definisca ‘paziente con bisogni speciali’ quello che richiede, durante la terapia, tempi e modi diversi rispetto a quelli per il paziente di routine. “Parliamo di persone in cui anche trattamenti odontoiatrici routinari diventano complessi”. Lo scopo dell’odontoiatria speciale “è consentire anche a tali pazienti di venire curati adeguatamente, seppure in spazi e con tempi allungati”. Ha quindi aggiunto come, in simili pazienti, “la prevenzione primaria e secondaria delle malattie dento-parodontali, compito primario degli igienisti dentali, sia di fondamentale importanza”.
Maria Rita Giuca, presidente del corso di studi in Igiene dentale all’Università di Pisa e presidente della Commissione nazionale Csid, ha aggiunto: “La rivoluzione demografica e le trasformazioni sociali hanno trasformato, anche in campo odontoiatrico, la terapia, in particolare con l’insorgenza di nuovi problemi socio- sanitari”. Tra questi: l’accesso alle cure odontoiatriche in soggetti clinicamente e socialmente fragili, “per i quali l’approccio multidisciplinare sia un modello di intervento efficace”. Insomma, centrale è il ruolo dell’igienista dentale e centrale è la prevenzione. “Con programmi personalizzati” all’interno di un team multidisciplinare. “Particolarmente efficaci sono gli interventi preventivi individualizzati, mirati alle reali necessità e possibilità del singolo paziente e incentrati su alcuni aspetti degli stili di vita; in tal modo la trasversalità dei messaggi proposti dall’igienista nei confronti del controllo del biofilm batterico, di una corretta alimentazione, dei danni derivati dal fumo, del consumo rischioso e dannoso di alcol, si riflettono automaticamente su patologie a elevatissima prevalenza, come le malattie cardiovascolari, la sindrome metabolica, il diabete, la Bpco e le neoplasie”.
Sono stati presi in esame, in particolare, il paziente con disturbo dello spettro autistico, affetto da epilessia, da sindrome di Martin-Bell (o del cromosoma X-fragile), il bambino affetto da leucemia, il paziente terminale e l’impatto di cecità e sordità nella comunicazione in igiene orali. “Pazienti su cui non si può improvvisare e dove solo il giusto mix di competenze ed esperienza sul campo porta a risultati”.
Il Servizio Sanitario Nazionale ha bisogno degli igienisti dentali
L’igienista dentale deve dunque aver svolto un corso di studi pianificato scrupolosamente e uniformato nel tempo per “il raggiungimento delle necessarie competenze professionali”. Per arrivare a questo risultato, è necessaria “un’appropriata formazione teorica, affiancata da un’accurata preparazione clinico-pratica, assicurata dal tirocinio personalizzante che prevede la frequenza di vari reparti ospedalieri e il contatto costante con realtà e situazioni cliniche speciali che offrono a docenti, tutor e studenti nuove opportunità per crescere umanamente e professionalmente”. Foglio Bonda ha fatto presente come oggi “i portatori di malattie croniche invalidanti siano in costante aumento”.
L’igienista dentale, in collaborazione con l’odontoiatra, in questi casi “deve istruire e motivare non solo il paziente, ma anche i famigliari e gli assistenti alle corrette metodiche di igiene orale domiciliare, consigliando materiali e metodi appropriati per il raggiungimento delle migliori condizioni di salute orale, compatibili con quella del paziente”.
La professione di igienista dentale sta mutando profondamente. E si sta anche affermando sempre di più grazie alla nascita di corsi di studi e di master in tutto il Paese. Siamo arrivati all’istituzione di un vero e proprio albo professionale. Oggi l’igienista dentale può lavorare come dipendente e come libero professionista, ma sempre su indicazione degli odontoiatri e degli specialisti in odontoiatria: “Si sta specializzando sempre di più nella comunicazione con il paziente, nella prevenzione delle malattie del cavo orale, nell’istruzione e nella motivazione alle corrette metodiche di igiene orale, al trattamento della malattia paradontale”.
Ci sono comunque dei problemi per il lavoro dell’igienista dentale, puntualmente segnalati da Foglio Bonda: “Il suo campo di applicazione è purtroppo prevalentemente limitato alla libera professione, rarissime sono le figure inserite negli organici del Servizio sanitario nazionale, dove viceversa il suo ruolo sarebbe fondamentale per la prevenzione primaria delle malattie oro-dentali placca-indotte e per il mantenimento di buone condizioni di salute in tutta la popolazione con l’attuazione delle misure di prevenzione secondaria e terziaria”. Concetto ribadito anche da Maria Rita Giuca: “Il Ssn, luogo principe per la prevenzione sanitaria, non vede praticamente la presenza di igienisti dentali”. Il suo maggiore coinvolgimento all’interno del Ssn aprirebbe invece alla possibilità di intervenire direttamente nelle scuole, nei consultori, nelle residenze sanitarie per anziani e nei casi di disabilità.
Foglio Bonda continua: “La Commissione nazionale dei corsi di laurea in igiene dentale è dal 2002 che chiede in tutte le sedi istituzionali l’assunzione da parte del Ssn degli igienisti dentali. Il loro inserimento negli ospedali sarebbe di grande aiuto nel trattamento dei pazienti ‘special needs’. Basti pensare agli immunodepressi per patologie sistemiche o secondari a terapie farmacologiche e/o radioterapiche; infatti questi pazienti hanno frequenti complicanze al cavo orale specie di natura batterica e micotica che gli igienisti dentali potrebbero prevenire e intercettare. I pazienti allettati e non collaboranti avrebbero un grande giovamento dal mantenimento di una buona igiene orale. Sarebbero possibili tanti altri esempi di impiego di questi operatori sanitari negli ospedali. Inutile sottolineare il ruolo che avrebbero nell’educazione dei pazienti alla corretta salute orale, specie nei reparti di pediatria”.
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Endodonzia: quando usare l’antibiotico e quando no
In Italia consumiamo troppi antibiotici? Sì, secondo i rapporti medici che vengono periodicamente resi noti. Non fa differenza l’odontoiatria che, anzi, è una tra le discipline mediche dove più vengono prescritti. A fare chiarezza è intervenuta la Società europea di endodonzia, che ha convocato un gruppo di esperti per dare indicazioni in merito alle situazioni cliniche in cui è richiesta questa terapia affiancata al trattamento endodontico, sia di natura ortograda sia chirurgica.
E’ stato stilato un vero e proprio vademecum, completo anche di indicazioni precise su quando vanno impiegati gli antibiotici, i farmaci da impiegare, le modalità di assunzione, i dosaggi e i tempi di terapia. C’è un capitolo anche per chi ha patologie sistemiche. E’ emerso, tra le prime considerazioni, che le infezioni endodontiche sono quasi tutte all’interno degli spazi canalari e che quindi il trattamento chemio-meccanico canalare è valido per guarire. E non è necessario ricorrere al trattamento antibiotico locale e neanche sistemico, visto che il principio attivo ha difficoltà a raggiungere il tessuto pulpare passando dal forame apicale.
Il trattamento endodontico può portare la batteriemia, ma il fenomeno è viene combattuto senza troppi problemi dal nostro organismo, senza dunque complicazioni. Se si tratta di pazienti con problemi sistemici, in cui è più probabile il rischio d’infezione, la terapia antibiotica a scopo profilattico può essere giusta. Ora andiamo a scoprire alcuni casi specifici.
Casi specifici di trattamenti endodontici
Il trattamento ortogrado generalmente non richiede l’antibiotico. Parliamo di pulpite irreversibile in assenza di segni legati alla diffusione del processo infettivo nei tessuti ossei periradicolari; di necrosi del tessuto pulpare; periodontite apicale legata alla presenza di materiale necrotico provenienti dagli spazi canalari, anche se accompagnati da dolori durante la masticazione e di visione radiografica di allargamento del legamento periodontale.
E poi ancora: ascessi apicali acuti, facilmente drenati dal canale radicolare; le lesioni croniche di natura granulomatosa. Fanno eccezione quelle situazioni in cui, al drenaggio dell’essudato attraverso il canale, compaiono rigonfiamenti locali e sintomi della diffusione dell’infezione ai tessuti ossei alveolari circostanti il dente causa dell’ascesso. Spesso, in questi casi, c’è anche un rialzo della temperatura fino a 38°, ingrossamento dei linfonodi di competenza delle zone topografiche del dente interessato, eventualmente trisma.
Antibiotici consigliati anche quando in meno di 24 ore si assisa a un progressivo peggioramento del quadro infettivo odontogeno di origine endodontica, con cellulite e/o osteomielite, che richiedono la consulenza del chirurgo orale e anche il suo intervento. Nel momento in cui l’approccio endodontico si trasforma trattamento ortogrado a chirurgico il rapporto dice sì agli antibiotici. Sì a questa terapia anche nel re-impianto dentale di elementi permanenti avulsi per trauma.
La Società europea consiglia di utilizzare in prima battuta antibiotici beta-lattamici (amoxicillina). L’amoxicillina clavulanata può essere giusta nei casi più complessi che non rispondono all’amoxicillina. Dose iniziale 1.000 mg, poi 500 mg ogni otto ore. Deve durare almeno cinque giorni. Attenzione perché i beta-lattamici possono dare reazioni allergiche, quindi in questi pazienti è meglio utilizzare la clindamicina 600 mg e poi quella da 300 mg ogni 6 ore, oppure la claritromicina 500 mg come dose di attacco con mantenimento a seguire pari a 250 mg ogni 12 ore e infine l’azitromicina 500 mg come dose di attacco, alla quale segue un mantenimento di 250 mg in un’unica somministrazione giornaliera.
Ci sono situazioni in cui il sistema immunitario del paziente è compromesso e quindi l’antibiotico va usato (leucemia, Hiv+, patologia diabetica incontrollata, severa e terminale compromissione della funzionalità renale, trattamenti di chemioterapia per neoplasie, impiego di farmaci steroidei o immunodepressori nei pazienti sottoposti a trapianto di organo.
Sì alla terapia antibiotica prima del trattamento endodontico anche per chi ha il rischio di sviluppare endocarditi infettive (pazienti con difetti cardiaci congeniti, protesi valvolari o storia precedente di endocardite infettiva). Un ultimo gruppo di pazienti sono quelli trattati a livello delle ossa mascellari con alte dosi di radiazioni, quelli trattati con farmaci bisfosfonati. In questi casi, consigliata la somministrazione di amoxicillina 2.000 mg da assumere un’ora prima del trattamento oppure, per i pazienti che non possono assumere terapia per via orale, è consigliato l’impiego di ampicillina per via endovenosa o intramuscolare, sempre con un dosaggio pari a 2.000 mg entro trenta minuti prima dell’intervento.
Nei pazienti allergici ai beta-lattamici, clindamicina per via orale in un unico dosaggio di 600 mg da assumere un’ora prima del trattamento. Lo stesso dosaggio (clindamicina) di 600 mg per infusione venosa è da riservare ai pazienti che non possono assumere terapia per via orale, da iniziare trenta minuti prima del trattamento endodontico. Altri farmaci che si possono somministrare in termini di profilassi antibiotica nei pazienti allergici ai beta-lattamici comprendono l’impiego di cefalexina per via orale in un dosaggio di 2.000 mg da assumere un’ora prima dell’intervento, oppure l’azitromicina o claritromicina per via orale in un dosaggio pari a 500 mg da assumere un’ora prima dell’intervento.
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Endodonzia: devitalizzare il dente non significa ucciderlo
Facciamo chiarezza: curare un dente che fa male significa devitalizzarlo? In realtà, anche le radici trattate con l’endodonzia restano vive. Ed è fondamentale perché se gli strati parodontali vivi, di cui è fatta la radice, morissero, l’organismo metterebbe in atto un meccanismo di riassorbimento del corpo estraneo.
L’endodonzia agisce solamente all’interno, nel momento del bisogno, rendendo inoffensiva l’infezione provocata da una carie, irraggiungibile dalle difese del nostro corpo. Non viene in alcun modo toccata la vitalità che ricopre l’apparato radicolare. Il dente mantiene la sua sensibilità quando si mastica, cosa che invece non avviene con gli impianti. Bisogna aggiungere che gli strati vitali sono tre e insieme formano il parodonto: il cemento radicolare, lo strato più duro della radice; il legamento parodontale; l’osso alveolare dei mascellari. Quando si estrae un dente, questi tessuti vengono tutti riassorbiti dall’organismo, compreso in gran parte l’osso che circondava le radici.
L’endodonzia moderna
Insomma, anche dopo la devitalizzazione, il dente resta biologicamente vivo. E questo è uno dei vantaggi dell’endodonzia, una delle sue caratteristiche. Fino a qualche decennio fa, l’unico modo per curare un dente malato era l’estrazione. Una soluzione disperata e anche dolorosa perché anestetici e antibiotici sono in uso da poco tempo. Una soluzione neanche facile tecnicamente parlando. Successivamente si pensò a come togliere il dolore, ma non il dente. Si devitalizzava la polpa infiammata inserendo dei veleni, come la pasta arsenicale, o fissativi tossici, la paraformaldeide. Attenzione perché questo tipo di operazione non è completamente sparito in Occidente.
Poi è arrivata la moderna endodonzia, che ha l’obiettivo primario di decontaminare l’intero sistema canalare endodontico. Vengono utilizzati materiali innovativi per la riparazione della perforazione, strumentazione, detersione, materiali da otturazione, cementi, igiene e sicurezza mediante la diga di gomma. Si rispetta prima di tutto la bocca del paziente, si eliminano i rischi esistenti nei precedenti interventi. L’endodonto viene sagomato, deterso e otturato in modo completo e preciso per rendere biologicamente inerte lo spazio prima occupato dalla polpa, quando è danneggiata irrimediabilmente dalle carie, da altre patologie o da traumi.
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Endodonzia: una ricerca svela, inutile lo strato di CH nelle otturazioni di carie profonde
E’ utile inserire uno strato di idrossido di calcio sotto le otturazioni in caso di carie particolarmente profonde? Se lo sono chiesti spesso, negli ultimi tempi, gli odontoiatri. Ebbene, secondo l’ultimo studio, sarebbe una procedura superflua, che può essere evitata. Solitamente, si usa posizione sotto l’otturazione un sottofondo (liner) di idrossido di calcio. Il motivo? Ciò avrebbe dovuto dare vita più facilmente alla formazione di un ponte dentinale o di dentina terziaria, a sua volte protettore del tessuto pulpare da stimoli elettrici o termici e degli agenti chimici degli stessi sistemi adesivi.
L’ultimo studio è stato compiuto facendo radiografie e valutazioni cliniche. E ha dimostrato che avrebbe un senso questa operazione solo sigillando la cavità in modo corretto perché si otterrebbe l’inattivazione completa delle lesioni cariose profonde. Vediamo ora la ricerca che è stata fatta e poi pubblicata sull’International Endodontic Journal a novembre 2018 cosa ci dice. La domanda da cui si è partiti è: l’uso di un liner di idrossido di calcio (CH) migliora il trattamento delle lesioni cariose profonde con denti primari e permanenti?
I risultati della ricerca
Si è operato seguendo la Dichiarazione Prisma. Sono stati inclusi altri studi che hanno preso in esame carie profonde trattate sia con sia senza un liner di CH. Le analisi statistiche sono state effettuate con il programma RevMan 5.2 (The Cochrane Collaboration, Copenaghen, Danimarca). E altre ricerche cliniche su pazienti seguiti per almeno 12 mesi, oltre a letteratura precedente in materia mediante otto database: PubMed (MedLine), Lilacs, IBECS, BBO, Web of Science, Scopus, SciELO e The Cochrane Library.
La revisione finale ha tenuto conto dei dati di 17 studi, 2 su denti permanenti e 15 su denti da latte. Si è notato che non c’è praticamente differenza di rischio. Vediamo i risultati esatti: la differenza di rischio per i denti otturati con liner di CH rispetto ai denti ricostruiti con i soli sistemi adesivi senza liner in denti primari è risultata essere di 0,06 (95% CI da -0,01 a 0,13), mentre per i denti otturati con liner di CH rispetto ai denti otturati con cementi vetroionomerici GIC senza liner è risultata essere di 0,10 (95% CI da -0,01 a 0,22). Insomma, nessuna differenza tale da giustificare l’operazione di cui parlavamo all’inizio. Posizionare un sottofondo di idrossido di calcio nel trattamento di lesioni cariose profonde non modifica il successo finale del trattamento stesso. Naturalmente, dovranno esseri fatti altri studi, soprattutto perché sono stati presi in esame solo due casi di denti permanenti contro i 15 primari.
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Selfie con il sorriso: i rimedi casalinghi meglio della chirurgia
Selfie – la moda del sorriso!
I selfie, la grande moda social. Grazie ai programmi e alle applicazioni per ritoccare le foto, spesso riusciamo a ottenere visi e dentatura perfetti. Ma i ricercatori e i medici americani lanciano l’allarme: “Non riuscire più a inviare un selfie senza filtrarlo o senza ritoccare anche solo il colore dei denti favorisce disturbi psicologici e spinge al ricorso alla chirurgia estetica”.
L’articolo è uscito sul Jama Facial Plastic Surgery, a firma di ricercatori e medici dell’università di Boston. Se prima erano solo le star a ritoccare le foto, oggi il livello di perfezione è alla portata di tutti. Anche se nessuno, poi, nella realtà è perfetto.
“L’onnipresenza di queste immagini modificate può avere un impatto sull’autostima, far sì che non si abbia una buona percezione di sé nel mondo reale. E agire come detonatore, portando a un disturbo dismorfofobico”.
Insomma, la preoccupazione sale, ci si vede meno belli. I difetti si percepiscono maggiormente.
Diventa una malattia, che rientra nei disturbi ossessivo-compulsivi. Si cerca a tutti i costi di cambiare il proprio aspetto, ricorrendo a interventi, a volte anche non necessari. Siccome i nostri denti, il nostro sorriso sono un po’ la nostra carta d’identità, ecco che si interviene principalmente su di loro. Per il selfie, però, non per la salute.
Secondo un’inchiesta dell’Accademia americana di chirurgia plastica e ricostruttiva facciale, nel 2017 più di uno su due (55%) dei chirurgi plastici riferisce di pazienti che hanno chiesto il ritocchino semplicemente per essere migliori davanti alla fotocamera. Nel 2015 eravamo fermi al 42%.
Piuttosto singolare che, proprio chi più usa i social e quindi più sa su come filtrare l’immagine tramite app, alla fine decida comunque di cambiarsi i connotati tramite chirurgia plastica. Partendo dal sorriso.
Che, per inciso, può essere migliorato anche con rimedi naturali. Per esempio, per sbiancare i denti si può usare l’acqua fredda, l’aceto di mele o l’olio di cocco. Lo usa pure Gwyneth Paltrow. Che ha confessato di aggiungere l’olio di cocco al dentifricio o ai risciacqui finali invece del colluttorio.
Stessa cosa dicasi per un’igiene dentale costante, visite periodiche dal dentista. Ma ci sono pure dentifrici o spazzolini a base di carbone vegetale con azione anti-macchia. Chiamateli pure rimedi della nonna e nuovi prodotti che una volta non c’erano. Di sicuro, sono meglio della chirurgia plastica o facciale.
Il Daily Mail riferisce di dentisti che hanno mandato i pazienti quando hanno saputo il motivo per cui si erano presentati in studio: “Il problema con i selfie è che sono scattati a distanza ravvicinata e, quindi, le immagini possono risultare distorte, con i denti che appaiono più sporgenti di quanto invece non siano, anche a causa del flash che enfatizza difetti inesistenti”.
Parole e musica di Tim Bradstock-Smith, direttore della London Smile Clinic. Lui stesso ha ammesso di mandare a casa coloro che vengono senza problematiche dentali reali.
Pulpite sintomatica: corticosteroidi per ridurre il dolore
Pulpite sintomatica: i vantaggi della terapia endotontica
Dal 25 al 40 per cento dei pazienti, dopo aver completato la terapia endodontica, hanno ancora dolore per diversi giorni. Spesso succede nonostante il trattamento canalare, effettuato proprio allo scopo di eliminare il male.
Solitamente, chi avverte un grave dolore prima dell’operazione ha anche quello post-endodonzia. Insomma, c’è una proporzionalità diretta tra il ‘prima’ e il ‘dopo’.
Appena il 23 per cento di chi non aveva male prima dell’operazione, ne risente al termine. Contro un 65% di pazienti che invece manifestavano sintomi prima dell’intervento.
Cosa fare, come comportarsi dunque per ridurre ulteriormente la percentuale di chi avverte dolore anche dopo la terapia? Si possono dare dei corticosteroidi, prima che si proceda e si intervenga all’interno della bocca.
I vantaggi di questo ‘stratagemma’ sono molteplici: non solo diminuzione o scomparsa del dolore al termine dell’operazione, ma anche minore assunzione di analgesici. Gli effetti collaterali dei corticosteroidi sono ridotti al minimo.
A settembre, un articolo apparso sul ‘Journal of Endodontics’ va a evidenziare gli effetti post- intervento della somministrazione di corticosteroidi prima dell’operazione su chi soffriva di pulpite sintomatica (dolore ai denti, spesso in conseguenza di una carie).
Pazienti sottoposti a trattamento canalare in un’unica seduta.
Risultati del trattamento
Quali i risultati di questo trattamento? Il prednisolone dato al paziente prima dell’intervento è in grado di ridurre l’incidenza del male post operazione a 6, 12 e 24 ore. Nessuno ha avvertito effetti collaterali.
La ricerca mostra dunque chiaramente come i corticosteroidi siano molto efficaci per ridurre o eliminare completamente il dolore endodontico post-operatorio nei pazienti affetti da pulpite sintomatica sottoposti a trattamento canalare in una seduta sola.
Naturalmente, non è sufficiente questa ricerca per arrivare a conclusioni definitive. Bisognerà eseguire altri studi con campioni di dimensioni maggiori per avere una conferma o una smentita.
Chiaro che il risultato ottenuto dà comunque indicazioni che hanno implicazioni cliniche. Se si presenta un paziente già sofferente, per ridurre il dolore post-operatorio si può somministrare una dose singola di corticosteroidi come il prednisolone di cui abbiamo già parlato oppure il dexametasone.
Successivamente, può iniziare il trattamento endodontico. Il paziente sentirà meno male e non sarà obbligato a dosi elevate di analgesici. Vantaggi indubbi che la ricerca ha posto benissimo in rilievo.